“Sostenibilità” è una parola che ormai è sulla bocca di tutti, specie nel mondo della moda.
Tantissimi brand, anche quelli etichettati come “fast fashion”, hanno presentato ai propri clienti un cambio di rotta: capi prodotti con materiali “sostenibili”, processi di produzione a ridotto impatto ambientale e condizioni di lavoro più eque per i lavoratori.
Ma le cose stanno davvero così?
Pare chiaro che il consumatore di oggi sia ancora più consapevole rispetto al passato: chiede a gran voce alle aziende una maggiore attenzione ambientale, spinto anche da continue informazioni comunicate da associazioni a tutela dell’ambiente, governi e persino personaggi di spicco sui social e in televisione.
Aziende e produttori, quindi, si sono mossi verso questa direzione, nel tentativo di rispondere ad un’esigenza di mercato ormai impossibile da ignorare e che ha già trovato risposta in altri settori, come quello automobilistico ed alimentare.
Ma quanto queste improvvise “svolte ecologiche” rispettano i dettami della moda sostenibile?
Ben poche.
L’industria della moda ci sta provando
Già da qualche anno, sulle passerelle dei più prestigiosi brand di moda, si sono visti dei veri e propri richiami alla tanto annunciata “svolta green”: abiti realizzati riciclando gli interni in pelle delle auto, accessori creati riutilizzando prodotti comuni (come tappi o bottiglie di plastica) fino alle ambientazioni delle passerelle adornate con alberi da ripiantare a fine della sfilata.
Ma non si tratta solo di grandi marchi. Ormai, anche le aziende di abbigliamento meno sostenibili al mondo per antonomasia, hanno fatto sentire la propria voce, con l’impiego di cotone organico, poliestere o plastica riciclati. Gli slogan presentano proclami di tutto rispetto, che puntano a comunicare al consumatore che anche il cosiddetto “fast fashion” sta pensando alla salute del nostro pianeta.
Certamente, si può notare un grande interesse e impegno verso produzione e smaltimento dei rifiuti meno impattanti, ma è chiaro che la strada da percorrere è ancora lunga e piena di insidie.
Le false promesse che fanno male al pianeta (e al portafoglio!)
Per le aziende che hanno sempre trascurato il problema dell’impatto ambientale del proprio business, svoltare verso un approccio più “green” è tutt’altro che semplice. Basti pensare alle catene di produzione, ormai delocalizzate da un punto di vista geografico: la maggior parte delle fabbriche che realizzano capi e accessori per questi brand sono dislocate dall’altra parte del mondo per via dei costi più bassi, sia in termini di manodopera che di materie prime. Cosa significa, in parole povere? Che le condizioni di lavoro sono sempre più precarie, i processi di produzione spesso non sottostanno ai regolamenti vigenti per lo smaltimento dei rifiuti e la distribuzione dei prodotti ha un impatto in termini di CO2 impressionante, con una stima di circa il 10% delle emissioni globali.
È quindi difficile pensare come, in pochi anni, tutte queste dinamiche siano state totalmente rivoluzionate nel nome del pianeta. Certamente la consapevolezza è maggiore, ma in pratica c’è ancora molto da fare.
I “proclami sostenibili” e le schede prodotto che millantano materiali riciclati o addirittura biologici, sono – alla luce di queste considerazioni – da prendere con le pinze: il fenomeno del greenwashing, parallelamente alle promesse green dei brand, ha visto un incremento esponenziale e i consumatori più attenti se ne stanno rendendo conto.
Il fatto che una t-shirt venga descritta come prodotta con materiali riciclabili non basta a rendere il prodotto sostenibile se chi lo ha realizzato deve sottostare a condizioni di lavoro denigranti. Quando acquistate un pantalone realizzato con cotone organico certificato, non potrete essere sicuri che effettivamente ogni singola fibra del capo sia del materiale dichiarato, proprio perché la filiera produttiva è talmente lunga da risultare impossibile tracciarne le singole fasi.
E una borsa in cosiddetta “pelle vegana”? Anche in questo caso non basta un aggettivo di tendenza per fare una scelta realmente sostenibile, tutt’altro: la maggior parte di questi materiali innovativi contengono solo una parte di fibre vegetali, il resto è spesso costituito da materie plastiche estremamente dannose all’ambiente, come il poliuretano, che comportano anche un importante dispendio in termini di energia, acqua e sostanze chimiche.
Il risultato sono capi e accessori solo apparentemente “sostenibili”, che però vengono venduti al cliente finale ad un costo maggiorato sia per loro che per il nostro pianeta; e questo è tutt’altro che essere green.
Senza contare che l’utilizzo fuorviante del sostantivo “pelle” può rivelarsi sibillino per il consumatore: deve infatti essere utilizzato solo ed esclusivamente per prodotti di origine animale, mentre nei casi di materiali sintetici o vegetali andrebbe sempre impiegato il termine “similpelle” per trasparenza verso il consumatore, vegani compresi, che ha il diritto di comprendere esattamente la tipologia di capo che sta acquistando.
La pelle conciata al vegetale per una moda davvero sostenibile
Nella spietata corsa verso la sostenibilità, brand e produttori hanno puntato all’innovazione: la famigerata “pelle vegana” di cui parlavamo poco sopra ne è un esempio lampante. Ma è proprio questo materiale innovativo ad essere finito sotto i riflettori qualche mese fa, con lo scandalo delle auto Tesla.
Ciò a testimonianza del fatto che sarebbe necessario fare un passo indietro, ritornando al passato e all’uso di materiali pregiati ma effettivamente sostenibili, che hanno permesso ai nostri avi di realizzare prodotti durevoli e rispettosi dell’ambiente per generazioni: stiamo parlando della pelle conciata al vegetale con tannino.
La sua storia parte da molto lontano e racconta di antiche tradizioni artigiane tramandate di padre in figlio, e continua fino ad oggi, offrendo ai brand e al consumatore un prodotto senza tempo, ma che dura una vita intera. È solo puntando su questo tipo di materiale che potremo ridurre l’enorme impatto ambiente dell’industria della moda.
I motivi sono molteplici: la pelle, che deriva da scarti dell’industria alimentare, viene recuperata e successivamente lavorata e conciata secondo metodi tradizionali, del tutto compatibili con le richieste di sostenibilità attuali per la tutela dell’ambiente. La pelle conciata al vegetale con tannino, alla fine del suo ciclo di vita, così come gli scarti della produzione vengono riutilizzati per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura biologica. La concia con tannini, inoltre, rende il capo o l’accessorio durevole nel tempo, mettendo un freno alla moda “usa e getta”, fatta di prodotti di scarsa qualità, da scartare dopo solo qualche anno.
Inoltre, l’estrazione del tannino e i processi di concia delle pelli sono facilmente tracciabili, grazie ad una filiera di produzione corta, dove sussistono condizioni di lavoro eque, sostenibili e volte allo sviluppo del territorio.
La vera svolta green per le aziende della moda è da ricercarsi quindi nelle tradizioni del passato, negli antichi processi di produzione artigianali, nell’impiego di materiali naturali e nel riciclo. E la pelle conciata al vegetale con tannino può essere considerata uno tra i pochi materiali realmente in grado di adempiere alle esigenze green del settore moda.
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